
Lo spazio tra l'innocenza e l'esperienza
Un' intervista con il chitarrista classico e compositore Ganesh Del Vescovo
di Baret Magarian
Vi è qualcosa nella storia della vita di Ganesh Del Vescovo che pare provenire dal regno della narrativa. Ci si potrebbe immaginare un romanziere che inventa quella vita in un racconto che voglia sottolineare “serendipità ”, scoperte casuali e fortunate, vasti contesti culturali e l’esperienza mistica. Sono proprio questi gli ingredienti di questa vita. Durante i vari incontri con Del Vescovo mi è parso di intravedere in lui la natura di una devozione quasi monastica alla sua arte. Come chitarrista classico non è soltanto padrone dello strumento ma ha inventato tecniche nuove e anche degli strumenti nuovi. Come compositore, l’insieme della sua musica per chitarra è notevole per la sua limpida risonanza, che spesso crea una sensazione di distacco sublime nell’ascoltatore.
Ora abita a Firenze ma ha passato gli anni della sua formazione in una zona isolata dell’Abruzzo, una regione italiana che, all’epoca in cui lui cresceva, era l’essenza del rustico e del rurale. Come dice lui, non vi era null’altro che l’abbraccio con dei paesaggi magnifici e brulli. “Niente negozi, niente TV, niente giornali”. Ha passato dodici anni nell’età della sua formazione in questo luogo rurale isolato, senza nessuna idea del mondo esterno né della cultura lontano da lì. A scuola faceva forca, preferendo scorazzare attraverso la campagna come un girovago felliniano. A quell’epoca pare che abbia sviluppato grande destrezza con tutto ciò che è manuale, guidando una macchina senza patente, lavorando nei campi e imparando che le sue mani erano il suo più grande punto di forza. Poi, a sedici anni, si trasferì a Roma presso la zia e là s’imbatté in una chitarra con una sola corda. Avvenne un qualcosa di simile ad una rivelazione.
“Una notte, appollaiato sul tetto, iniziai a suonare quella chitarra. Ebbi la sensazione di qualcosa che emergeva dentro di me, qualcosa di profondo e di magnetico. Era come se fossi entrato in un’altra dimensione. Non era proprio un’emozione ma una senso di spiritualità che portò alla nascita di un nuovo punto di vista del mondo. Volli creare nuovamente questa sensazione e questo mi portò a diventare musicista”. In seguito comprò le altre corde e accordava la chitarra secondo delle scale inventate da lui, sviluppando fin dall’inizio delle tecniche nuove, specificamente il pizzicato Ganesh. Nel frattempo, mentre era a Roma, fece vari lavori come lavapiatti, assistente cuoco, cameriere e tappezziere. A diciannove anni tornò in Abruzzo.
Una delle cose sorprendenti della nostra conversazione è stata la percezione che mi ha dato del suo metodo compositivo. A differenza di molti artisti, l’ambiente non sembra avere nessun ruolo nelle sue capacità creative. Che si trovi in città o in campagna, che l’ambiente sia tranquillo o rumoroso, non fa nessuna differenza, (per esempio, il pezzo “Jasidhih Express” fu composto in un treno indiano pieno di famiglie con bambini, mentre viaggiava fra Kolkata e Delhi). Egli è talmente centrato e concentrato dentro se stesso che gli aspetti del mondo esterno e quello che vi succede non penetrano nella sua azione creativa. La musica arriva con semplicità e, quando egli non trova l’impulso a comporre, non fa uno sforzo in tal senso. In questo senso la sua metodologia ricorda l’idea dell’arpa eolica che fu suonata dal vento oppure quello stato di ebbrezza cosciente che portò alla creazione del poema di Samuel Taylor Coleridge, Kubla Khan. Ma occorre anche sottolineare il fatto che il suo mondo interiore è anche collegato alla sua pratica di meditazione e al suo amore costante della spiritualità indiana e dello yoga. Vale la pena anche di indicare che non aveva mai sentito nessuna musica di natura classica. In conformità con il livello straordinario di ingenuità e innocenza, supponeva che tutti avessero la capacità di mettersi semplicemente a suonare e a comporre musica. Semmai ci fosse una storia di un prodigio contemporaneo che prende semplicemente uno strumento e lo suona con padronanza, senza nessuna istruzione formale, Del Vescovo ne sarebbe il protagonista.
Venne in contatto con un distinto Maestro fiorentino, Alvaro Company, che fu talmente meravigliato davanti al suo talento che gli offrì lezioni gratis. Fu così che Del Vescovo acquisì una formazione accademica che, fino ad allora, gli era mancata.
Ora, a Firenze, verso il 1982, viveva in una roulotte la vita di uno zingaro emaciato, sopravvivendo con l’equivalente di 25 Euro al mese. Ebbe alcuni incontri con la legge, per lo più incentrati sul parcheggio illegale della sua roulotte. Ad un certo punto finì, insieme alla roulotte, a Piazzale Michelangelo, la cui fontanella offriva a Del Vescovo una sorgente di acqua corrente. Ma gli agenti di polizia che lo individuarono, finirono con l’essere flessibili e, vinti dalla totale ignoranza di Del Vescovo riguardo a come funziona la società , gli fecero addirittura dei favori. In quel momento egli appare quasi come una figura uscita da Rabelais, disadattato archetipo, pieno di inventiva, che sopravvive grazie alla sua presenza di spirito. Poi iniziò a studiare al Conservatorio. Nonostante la severità di questa esperienza (almeno dieci ore di prove e di studio al giorno) riuscì a mantenere intatta la sua spontaneità . Questa spontaneità va di pari passo con la sua esperienza del tempo, che egli non registra in modo convenzionale. “Non ricordo gli anni, le date. Non ho un vero senso del tempo lineare che passa. Ora, a quarantanove anni, mi sento più giovane che a venti perché la mia visione è più vasta, la mia sensibilità più grande. Mi sento più vivo verso le sfumature, i toni e le tessiture. Allo stesso tempo mi rendo conto che la musica può sì darmi una felicità ma, in definitiva si dimostra effimera. Gli artisti non possono mai essere felici. Se io lo fossi non comporrei. La musica getta un ponte verso il mondo spirituale, un mondo senza tempo”.
E’ istruttivo pensare che questa visione del mondo potesse formarsi e prodursi nelle circostanze così umili e povere in cui egli si trovava. Oppure forse è avvenuto precisamente per questo motivo. L’arte di Del Vescovo è la sua vita, quindi non ha bisogno di addobbi esteriori, di piaceri o di droghe di cui ci circondiamo. Ma, quando egli incontrò Uttarkashi, una swami che insegnava yoga insieme al marito, Anusandhana, la roulotte fu finalmente sostituita con un Ashram. All’istante fu stabilito un rapporto fra la famiglia e Del Vescovo, e lui andò a vivere presso di loro. Il periodo di girovagare era finito e la sua carriera iniziò a fiorire con concerti in Toscana, in tutta l’Italia, in Europa, in India e in Giappone. Recentemente si è anche imbarcato nello studio intensivo del tabla e del sarod, acquisendo velocemente maestria su entrambi gli strumenti.
Un DVD verrà pubblicato fra breve e il suo Website presenta le sue composizioni e degli scritti riguardanti il suo stile musicale e le sue innovazioni. E’ una storia notevole che fonde tante idee su quale sia il modo migliore di vivere e che cosa sia realmente l’arte. Terminiamo la conversazione con una nota stimolante. Sembra distratto, poi pieno di energia: “Tutti abbiamo questo talento dentro di noi. E’ questione di portarlo fuori, di scendere in miniera e di scoprirlo. Il materiale dentro ognuno di noi è lo stesso, ma la sua espressione cambia a seconda dell’individuo”. In termini di minatori, sento che lui è sceso più profondamente della maggioranza di noi. Fortuna per noi che è anche risalito in superficie!
Firenze, novembre 2008
L’autore, Baret Magarian, è uno scrittore inglese che ha collaborato a molti giornali e riviste inglesi. Attualmente vive e lavora a Firenze, dove sta preparando un romanzo ambientato a Firenze e a Lisbona.